18-08-2014 ore 18:00
Agli amici che parteciperanno all’incontro di presentazione del Racconto di Myriam voglio per iscritto raccontare i pensieri che ha stimolato alla mia curiosità emotiva e razionale la lettura di una storia dalla semplicità e profondità sconcertante.Pensieri e considerazioni che hanno bisogno di essere scritte, lette e considerate con maggiore attenzione delle parole che saranno dette in un incontro che deve avere i caratteri della semplicità e leggerezza calviniana che richiede lo scritto di Myriam. Le parole di una “festa di iniziazione ” devono essere lievi e liete soprattutto per l’autrice in cambio del “dono” che ha voluto fare alla nostra e sua comunità di nascita. Ognuno di noi da un libro che legge per scelta o per consiglio di un buon amico è libero di restare ,muto, silenzioso o turbato , incuriosito, nel labirinto letterario che un racconto crea intorno al lettore oppure dare sfogo ad una sorta di esplosione da “finale pirotecnico” policrono e polifono che sfugge al proprio cervello in considerazioni e idee che necessariamente sono legate ai fatti, i sentimenti del racconto stesso…o che nulla hanno a che fare con esso. Questo è il miracolo della poesia e della letteratura in genere che a un certo punto che ci permetto la libertà o la necessità di abbandonare le griglie o i binari tracciati dalle parole del racconto e rischiano di sbatacchiarci in giro o di alzarsi in volo o ci infilano nelle caverne del sottosuolo della propria anima in cerca di archeologie magiche misteriose. Tra le maglie confuse della “estetica filosofica” la giovane protagonista ci conduce per mano come in Alice nel paese delle meraviglie” nei labirinti dei simboli, delle sensazioni di un percorso d’amore che rappresentano la ricerca di identità e di alterità di una adolescenza lineare e lirica. Non siamo nel mondo del destino delle eroine tragiche greche…..siamo nei “thiasi” di Saffo e Archiloco. Mi son venuti in mente tutti i sofismi interpretativi e i paralogismi più cervellotici di una mente libresca e accademica che ci hanno suggerito di distinguere tra “una identità narrativa ed identità narrabile”… una che fa riferimento al concetto di “testo” cara ai letterati l’altra è l’identità che chiede di essere narrata, definita… conclusa in unità che è dei filosofi. Il racconto di Myriam è di questo secondo tipo. E’ come se io desiderassi che qualcuno mi raccontasse la mia storia, o, altrimenti, detto in maniera meno egoistica, come se io vivessi la mia vita avendo come desiderio che la mia vita non venga costituita da un susseguirsi, per così dire, casuale di eventi, ma che essa abbia in sé una sorta di trama narrativa e che quindi sia narrabile. La sintonia o la empatia che io cerco in un racconto identitario è duplice: una di attrazione e coinvolgimento e, l’altra di stimolo con possibilità di fuga per le mie tangenti mentali, concettuali e sentimentali. Io, per caratteristiche filosofiche, cerco per abitudine di ricostruire una mia unità figurativa della protagonista che può nascere consapevolmente o inconsapevolmente dalla scrittura stessa di chi mi parla e mi racconta di sé nella storia di una parte della sua vita e che per mistero o miracolo, dovrebbe avere un disegno, leggibile con una sorta di figura… che non resterà sempre uguale e si evolverà fisiologicamente e sentimentalmente nel tempo e negli spazi che le è dato vivere. Forse, per meglio spiegare quello che ho in mente, potrei raccontare una favola tramandataci da Karen Blixen la cui trama può chiarire tutti questi concetti che sto dicendo in maniera, forse, confusa. Narra Karen Blixen che da bambina le raccontavano una storia che si svolgeva così: “C’era una volta un uomo che viveva presso uno stagno e una notte sentì un gran rumore, e sentendo questo rumore uscì di casa nel buio. Che cosa era successo? Lo stagno si era aperto rompendosi in un argine da cui uscivano acqua e pesci, e quest’uomo correndo nel buio e calpestando il terreno bagnato, (andava un po’ alla cieca nel buio della notte), passò parecchio tempo a riparare questa falla negli argini dello stagno andando appunto avanti e indietro. Poi, finalmente, fatto il suo lavoro se ne andò a dormire. L’indomani mattina, affacciandosi alla finestra, vide che i suoi passi sul terreno avevano disegnato la figura di una cicogna; a questo punto Karen Blixen si chiede: quando la mia vita sarà compiuta io vedrò in me stessa una cicogna o la vedranno altri riflessa in me? Ecco questa domanda di Karen Blixen sintetizza in sé quel desiderio di cui parlavo prima. Naturalmente la cicogna, ossia il disegno unitario di ciò che l’uomo ha fatto quella notte, è ciò che risulta non essere stato progettato da quest’uomo nella sua opera di riparazione, perché egli non ha fatto altro che andare avanti e indietro alla cieca, nel buio, e così è, effettivamente, la vita: la vita non viene progettata di modo ché ogni nostro passo, ogni nostra scelta, ogni nostra azione faccia parte di un disegno unitario. E tuttavia questo desiderio che, appunto, la vita non sia un susseguirsi di avvenimenti casuali e di scelte casuali, che l’insieme degli accidenti e delle nostre scelte volontarie producano un disegno che assomiglia alla “cicogna” di Karen Blixen, credo che faccia parte dell’animo umano nella sua dinamicità. Perlomeno è un desiderio che io cerco rinnovare in me stesso di individuare le “possibili cicogne” presenti in ciascuno di noi… quando sente l’impulso di scrivere e raccontare la “cicogna “ di quel particolare momento della propria vita sentimentale e mentale soprattutto quello della adolescenza che per esuberanza, problematicità e ricchezza può essere frenata e turbata dalla paura di non poter disegnare la “propria cicogna” con delle buone ali per volare alto e oltre.
Mauro Orlando
ps… agli ospiti partecipanti voglio ribadire e assicurare che niente di tutto ciò farà parte del mio contributo di riconoscenza a Myriam nel giorno della sua festa!